
“Mein Liebes. Storie di donne lesbiche e transgender nella Germania nazista” è una mostra documentaria esposta in occasione della “Giornata della Memoria” a Savona e in diverse altre città italiane.
Curata da Delfina Tromboni e realizzata in collaborazione con Arcigay e Rete Donne Transfemminista, la mostra mette in luce un aspetto relativamente poco noto delle persecuzioni operate dei nazisti verso i gruppi sociali considerati “anormali” e che avrebbero potuto secondo l’ideologia del Reich mettere in discussione la purezza della “razza ariana”.
“Omocausto”: la repressione e lo sterminio degli omosessuali durante il nazismo
In Germania l’omosessualità maschile era un reato penale punito dal cosiddetto “paragrafo 175”: a partire dal 1929 il Parlamento della Repubblica di Weimar lavorava alla sua abolizione, ma con l’avvento del nazismo le norme furono inasprite al punto da punire persino le “fantasie” sul tema e la norma sarebbe stata depotenziata nel 1969 (dopo la guerra furono rimosse solo le modifiche apportate dai nazisti) e abolita del tutto solo nel 1994, in Austria lo era anche quella femminile.
In Austria, come documenta la mostra, solo una lettera nella quale una donna anonima si presenta con l’intento di conoscere altre ragazze era penalmente perseguibile. Lo stato tedesco riconobbe la persecuzione degli omosessuali e il loro Olocausto solo nel 2000, mentre nel dopoguerra i “liberatori” sovietici pur con meno violenza esplicita dei nazisti continuarono a considerare gli omosessuali dei criminali o degli anormali da internare e punire.
La mostra esposta fino al 2 febbraio al Palazzo del Commissario presso il Priamar di Savona (sabato e domenica 10-13 e 15-18, in settimana e per le scuole su appuntamento) ricostruisce il cosiddetto “Omocausto” ovvero la persecuzione e lo sterminio sistematico delle persone omosessuali, uomini e donne, da parte del regime nazista.
La mostra “Mein Liebes. Storie di donne lesbiche e transgender nella Germania nazista”

Dal 27 al 30 gennaio la mostra Mein Liebes sarà esposta anche presso il Centro Civico Buranello e 1° febbraio il circolo Arcigay del Lagaccio a Genova.
Gli omosessuali maschi furono internati nei lager con un “triangolo rosa” e sottoposti in moltissimi casi a esperimenti medici e terribili torture nel tentativo di “raddrizzarli” e ricondurli a una sessualità considerata “normale”.
Nell’ambito dell’esposizione, Mein Liebes. Storie di donne lesbiche e transgender nella Germania nazista” ricostruisce come l’omosessualità femminile non fosse menzionata esplicitamente nel paragrafo 175 perché era una sorta di “interdetto discorsivo” e perché le donne “che indulgono in relazioni sessuali innaturali non sono impedite del tutto come agenti procreativi” e perché “le donne hanno un minor peso nella società e nel pubblico impiego”.
La Germania degli anni Venti, quella della Repubblica di Weimar, era attraversata da una grande fervore culturale del quale le donne erano protagoniste assolute, come abbiamo ricostruito nell’articolo sulla mostra “Le ragazze del Bauhaus”.
Di questa effervescente vita sociale e culturale della Berlino degli anni Venti era protagonista anche il mondo lesbico, che contava su due riviste nazionali come “Frauenliebe” (Amore femminile) e Freundin (L’amante donna) e una fitta rete di locali e ritrovi come il “Monbijou des westens” aperto nel 1927 da Elsa Rosenberg e dalla sua compagna Amalie Rothaug.
Il club era un punto di riferimento per tutto il mondo culturale e artistico berlinese, non solo per il mondo omosessuale, frequentato da attrici, attori, scrittori e scrittrici, intellettuali, e fu chiuso dal regime nazista nel 1933.
Un’altra donna protagonista dell’attivismo per i diritti delle donne lesbiche e del mondo culturale è stata Charlotte Han, fondatrice assieme alla sua compagna del “Damenskub Violetta” che cercava di unire l’attivismo sociale e politico con l’intrattenimento e le proposte culturali.
Molte delle donne perseguitate dai nazisti per il loro orientamento sessuale lavoravano proprio nell’ambito artistico o in quello della ristorazione e dei bar, non necessariamente quelli dell’ambiente omosessuale.
Altre, come Margarete Rosenberg, Elli Smula, Mary Punjer, sono state tra le prime donne ad essere impegnate in lavori considerati prettamente maschili sino ad allora, come quello di conducente di tram, autobus e treni, arruolate dal regime perché i maschi erano deceduti o impegnati sul fronte bellico: furono, anche loro malgrado, delle “pioniere”.
Molte di loro furono accusate di “mantenere rapporti ripetuti con le loro compagne di lavoro” ovvero “rapporti lesbici” e deportate per questo nei campi di concentramento.
L’assenza di una norma esplicita nel paragrafo 175 che punisse l’omosessualità femminile aumentò ancora l’arbitrarietà della polizia nazista nel perseguitare e deportare le donne lesbiche “irredente”, che nei lager erano, secondo la testimonianza di Fania Fénelon, ex componente dell’orchestra femminile di Auschwitz, bollate con il “triangolo nero” in quanto “asociali” che violavano “il sano sentimento popolare” e costrette a subire violenze sessuali ripetute nei “bordelli” interni ai lager stessi.
“Mein Liebes” e i gruppi considerati “asociali”
Negli “asociali” erano compresi etilisti, lesbiche, vagabondi, zingari e prostitute: per questo, oltre che per infliggere loro ulteriore umiliazioni e sofferenze, le donne lesbiche erano destinate ai “bordelli” dei campi di concentramento.
Alcune di loro, come Henny Schermann, che era anche di origine ebraica, e Hertha Kozy furono uccise in quanto lesbiche. Hertha Kozy, che lavorava in un bar di Berlino, fu considerata “indegna di vita” per aver confessato di aver avuto una relazione con un’altra ragazza e rapporti occasionali con donne sposate conosciute sul lavoro, e uccisa nel 1942 nel lager di Bernburg.
Altre donne come Elsa Rosenberg riuscirono a sopravvivere e dopo la guerra ripresero la loro attività.
La mostra Mein Liebes ricostruisce e ci porta dentro le vite dimenticate di alcune di queste donne che con la loro stessa esistenza mettevano in discussione il regime nazista e la sua idea di società, una società nella quale l’esistenza delle persone era finalizzata solo al “miglioramento della razza” ed aveva un senso solo se utile per il regime.

Tra di loro, anche Dora Richter, la prima donna “transgender” in Germania nel periodo di Weimar, e la musicista Ilse Totzske.
Una mostra che mette in luce un aspetto dimenticato della storia recente, e che mostra come le donne persino nella persecuzione fossero considerate come una questione “minore” negandone persino l’identità personale e sessuale.
Le donne lesbiche che vediamo ricordate in questa mostra furono perseguitate tre volte: come donne, come omosessuali e come “infertili” perché intrattenendo relazioni tra di loro non davano il loro contributo alla “difesa della razza” e al regime.
Alcune furono perseguitate anche come oppositrici politiche o per le loro origini ebraiche.
Molte di loro furono invece autentiche protagoniste della vita sociale, artistica e culturale della Berlino di Weimar e innovatrici o “pioniere” nel mondo del lavoro e in altri settori.
Questa mostra cerca di rendere loro giustizia ricordando le loro vite e il loro contributo alla lotta per la libertà.
Orari
Orari della mostra di Savona 10-13 e 15-18 sabato e domenica, stessi orari su appuntamento e per le scuole in settimana
Ingresso libero
Domenica 2 febbraio presso il Palazzo del Commissario ci sarà lo spettacolo “La memoria rende liberi” letture teatrali drammatizzate sul tema delle deportazioni, con la partecipazione di Daniela Liaci. Ingresso su prenotazione
Andrea Macciò
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